lunedì 10 agosto 2015

CAPOTERRA: le chiese di Santa Maria Maddalena e di San Giorgio Martire


 

 
La “Villa” di Santa Maria Maddalena (oggi conosciuta come La Maddalena Spiaggia di Capoterra), nel periodo giudicale e aragonese possedeva un porto nello stagno, le saline, una peschiera vicino al ponte di Maramura, un porto con pontile sul mare della Maddalena Spiaggia, una vasta area boschiva che, nella seconda metà del ‘700 venne  disboscata per la lambranza. Contava una chiesa che era già presente nel periodo giudicale e 41 fuochi registrati nel 1323. Abbandonata tra la fine del XIV secolo ed il periodo successivo, la Villa Santa Maddalena si trasformò in un “paese fantasma” fino alla seconda metà del ‘700, quando un abile imprenditore, il Console Giorgio Vallacca, vi impiantò le saline e trasformò il luogo della Maddalena, oramai da tempo desolato e malsano a causa degli stagni circostanti, in un podere ricco e prospero. Lo stesso imprenditore nell’anno 1777, in un lettera  indirizzata all’Arcivescovo Vittorio Mellano, chiese il permesso  di poter edificare una chiesa dedicata a San Giorgio Martire delle Saline, per offrire un servizio utile per quel luogo ormai abbandonato da tempo. Inoltre scrisse nella lettera che, la cappella se pur privata, era accessibile a tutti: massai, pastori, pescatori e ai “foresteris”. La chiesa di San Giorgio venne costruita nel 1778 e più tardi, nel 1782, Vallacca acquistò anche  l’antica chiesa di Santa Maria Maddalena per la somma di 15 scudi. Nelle  trattative epistolari tra Vallacca e il cancelliere ecclesiastico referente dell’Arcivescovo Vittorio Mellano, si leggono le condizioni in cui versava l’antica chiesa: non aveva più il tetto e la finestra, ma erano solo presenti le mura perimetrali; la porta era vecchia e la chiesa non aveva più un ponte. In una mappa del 1793, sopra la casa della Maddalena compare una croce, ad indicare la presenza della chiesa. L’edificio corrisponde allo stabile tutt’oggi presente nella località Maddalena Spiaggia, dopo il ponte di Maramura, ma è un vecchio  rudere abbandonato. Mentre la chiesa di San Giorgio Martire delle Saline è stata demolita nel 1997, per dare spazio alle costruzioni della Residenza del Sole. In riferimento a quest’ultima, tengo ad informare il lettore, che ciò non è avvenuto per l’incuria di preservare un nostro bene  storico e artistico, in quanto nessuno era al corrente dell’esistenza della  chiesa di San Giorgio dell’epoca Sabauda e tanto meno, si è/era  a conoscenza  che i vecchi ruderi nell’odierna  Maddalena Spiaggia, siano quelli  dell’antica chiesa di Santa Maria Maddalena. Anche se le “capillarità” di questo patrimonio storico e artistico  non sono più percepibili “a occhio nudo”,  possiamo almeno divulgare questi  elementi storici e inediti, servendoci di questo importante sito, o consultando il testo cartaceo presso le biblioteche, per la salvaguardia del nostro patrimonio culturale.

A cura di Cinzia Arrais, accompagnatrice guida Gae e autrice della pubblicazione "La Maddalena Spiaggia dal 1300 alla seconda metà del 1700" Progetto www.chiesecampestri.it

giovedì 28 maggio 2015

CARGEGHE: San Procopio



Nella memoria tradizionale cargeghese non rimane il benché minimo ricordo della chiesa rurale di San Procopio poiché con molta probabilità fu già ridotta allo stato di rudere verso la metà del XVIII° secolo.
Le uniche notizie relative a tale edificio sacro sono quelle contenute nei registri parrocchiali tra la fine del XVI° secolo e la prima metà del secolo successivo.

Nel legato di Magdalena de Fiumen del 4 novembre 1591, la chiesa viene menzionata per la prima volta:
“Ittem queret que su mesu desa tribuna de Stu Procopiu siat fata subra su sou.” Item vuole che la metà della tribuna di San Procopio sia fatta sopra il suo. (Quinque libri, registro dei battesimi n. 1, foglio 122/69)

In altra registrazione di pochi anni posteriore si apprende che la chiesa necessitava di lavori (di ampliamento?) - faguere fabricu - e si dava disposizione che si pagasse la giornata di un maestro muratore.

Legato di Brancaziu Mula del 19 settembre 1595:
“Asa ecclesia de Santu Precopiu ecclesia rorale de ditta villa cando li faguere fabricu una jornada de unu mastru et (medrigadu?) overu (?) degue soddos.” Alla chiesa di San Procopio chiesa rurale di questa villa quando faranno lavori una giornata di un maestro e (medrigadu?) ovvero (?) dieci soldi. (Quinque libri, registro dei battesimi n. 1, foglio 43d).

Probabilmente i lavori di ristrutturazione non erano ancora conclusi se solo un anno dopo Ambrosu Solinas lasciò 10 soldi e altri fondi per incalcinare l'edificio.

Legato di Ambrosu Solinas, 11 luglio 1596:
“(...) et a Santu Procopiu 10 soddos (...). Ittem lassat qui subra sos benes suos siat inquarquinada sa ecclesia de Santu Procopiu (?).” E a san Procopio 10 soldi (...). Item lascia che sopra i suoi beni sia incalcinata la chiesa di San Procopio. (Quinque libri, registro dei battesimi n. 1, foglio 71/24/3).

In una registrazione del XVII° secolo ritroviamo una sua menzione inerente il lascito di terreni forse confinanti a quelli dell'Opera della chiesa. (riportiamo la traduzione)

Legato di Priamu Pinna, 18 marzo 1624:
Item testiamo, lasciamo, vogliamo e comandiamo (?) e l'anima nostra dopo seguita la morte di entrambi noi altri all'opera di San Procopio chiesa rurale della presente villa tutte quelle terre nostre che teniamo e possediamo nei territori della presente villa nel luogo detto Valle pedrosa(1), dette terre vogliamo che sempre e quando le voglia (?) gli operai a conto e profitto di detta opera che le (?) alla buonora e (?) se non le vogliono (?) vogliamo che dette terre si vendano al (?) risulta di dette terre si carichino a sensale in luogo sicuro, e della pensione si paghi per riparare ogni anno la predetta chiesa (?) essere questa l'ultima nostra volontà che vogliamo. (Quinque libri, registro dei battesimi n. 1, foglio 80b/32b).

Non vengono riscontrate ulteriori registrazioni posteriori che menzionano la chiesa, e ciò lascerebbe presumere che si avviò un processo di degrado delle strutture e rimozione dalla memoria collettiva.

Nel libro di amministrazione della parrocchia SS MM Quirico e Giulitta della seconda metà del XVIII° secolo si menziona il sito di Santu Precòpiu o Procòpiu, indicando la sua ubicazione nella Vidassoni de Campu de Mela, un'area posta nella piana a valle del paese, confinante con altro sito denominato Coa de Molino.
In virtù di tali "coordinate" è stato possibile individuare l'odierna area corrispondente all'agiotoponimo settecentesco oggi caduto in disuso. In tale luogo era probabilmente ubicato l'edificio di culto, forse all'epoca, come accennato, già in stato di rudere. L'area da sempre è sottoposta a lavori agricoli e dunque in situ non si rilevano tracce di un antico edificio.


La medesima area venne archeologicamente investigata dalle dott.sse Giuseppina Manca di Mores e Tiziana Bruschi alla fine degli anni '90 del secolo scorso. Tale sito però nello studio pubblicato alla fine dei lavori venne indicato con il toponimo di S. Episcopio (al momento si ignora da dove sia stato attinto) e non con quello corretto di Santu Procòpiu. Anch'esso, insieme al sito di Santu Pedru - separati da una strada – fu probabilmente inerente al villaggio di Carieke, la Cargeghe medievale, nella cui area lo studio in questione ha evidenziato una vastissima area di frammenti ceramici che coprono un arco cronologico compreso almeno fra il II secolo a.C. e il VII d.C. da riferire ad un insediamento di lunga durata. Congetturando è ipotizzabile che le chiese di Santu Pedru e Santu Procòpiu appartenessero al medievale villaggio di Carieke, che in data imprecisata ma verso la metà del XIV° secolo spostò la sua sede originaria nell'attuale sito.

Sempre in tale area si trovano i ruderi di un antico mulino idraulico. Parte dei materiali utilizzati per l'edificazione del mulino ottocentesco potrebbero provenire dai ruderi della vicina chiesa? Solo una supposizione.




Labili tracce della chiesa “scomparsa” e del culto del martire si ritrovano in altre chiese del paese. All'interno dell'Oratorio di Santa Croce ad esempio, vi sono due porzioni di cornice con incisa una datazione e una iscrizione, presumibilmente seicentesche, ad oggi ancora inedite, che potrebbero essere ricondotte, almeno la seconda, alla chiesa in esame ed inseguito ricollocate quali elementi decorativi all'interno dell'Oratorio. La prima cornice posta nella parete destra, porta incisa la data del 1630, ma non è possibile comprendere se sia l'anno indicante l'edificazione dell'Oratorio, o un elemento importato e inglobato nella muratura.
La seconda cornice collocata nella parete opposta reca incisa invece una parziale iscrizione con segni di interpunzione, la quale recita:

 · P · MAR · PORC · O ·

che potrebbe essere interpretata nella maniera seguente:
· P[RO?] · MAR[TYRIS] · PORC[OPIUS] · O[PUS] ·

Forse una iscrizione relativa ad importanti lavori eseguiti all'interno della chiesa rurale e che in seguito al suo decadimento vennero asportati parte dei materiali e ricollocati nell'Oratorio in data imprecisata. Il Porc[opius] dell'iscrizione potrebbe essere l'esito per metatesi di Procopius.





All'interno della parrocchiale del paese, in una delle cappelle tardogotiche laterali, trovasi un dipinto del quale si possiedono rare notizie, forse eseguito alla fine del XVI° secolo, c'è chi dice dalla bottega di Baccio Gorini, o da tal Marco Antonio Maderno pittore pavese presente in quell'epoca a Cargeghe. L'opera “Madonna in trono e Santi” dove vengono ritratti tra le altre figure, due martiri dei quali quello sul lato destro del dipinto potrebbe ricondurre al martire Procopio poiché rappresentato con ai piedi elmo, scudo e spada e dunque effigiato come un martire guerriero del tutto simile alla iconografia conosciuta di san Procopio.




A cura di Giuseppe Ruiu cultore di storia locale (leggi la scheda completa nel suo blog)

Progetto: www.chiesecampestri.it 

venerdì 5 aprile 2013

VILLANOVAFORRU: San Sebastiano Martire

 
pietra fregiata murata in abitazione privata
Scomparsa da oltre 150 anni, era ubicata in un’area che all’epoca era aperta campagna, corrispondente al campetto che porta la sua intitolazione, sullo stesso punto in cui si continua a rinnovare l’arcaica tradizione del Falò. Sicuramente i nonni dei nostri anziani avranno conosciuto le mura cadenti del tempio, approfittandone per asportare le pietre, da utilizzarsi nella costruzione di case e recinzioni. In alcune abitazioni sono murati interessanti conci lavorati, anche con fregi e preziose decorazioni scolpite a motivi floreali e simbolici. In particolare, presso il museo archeologico, nella sala dedicata al medioevo, è esposto un reperto assai interessante che gli archeologi hanno definito “la scultura mutila di elefante con gualdrappa, riconoscibile come sostegno di una vasca contenente l’acqua lustrale disposta all’interno di un edificio religioso. La parte posteriore è sommariamente lavorata e probabilmente era appoggiata al muro. E’ databile tra la fine del XVI e la prima metà del XVII secolo”. Questo oggetto in arenaria, purtroppo incompleto, potrebbe provenire proprio dalla chiesetta di San Sebastiano e le date proposte dagli studiosi sono molto significative, perché lo determinano tra la fine del Cinquecento e la prima metà del Seicento, periodi in cui nell’intera Europa si sono verificate catastrofiche pestilenze e di conseguenza vi è un proliferare di edifici di culto dedicati a San Sebastiano
 
Abbiamo provato a compiere alcune ricerche, per riuscire a conoscere le vicende del nostro luogo di culto, che possiamo immaginare di modeste fattezze, composto da un’unica aula coperta a capanna con soffitto incannucciato, forse dotato di un ingresso laterale, di una piccola sacrestia, di un campaniletto a vela e quasi certamente con un singolo altare. Gli anziani hanno solamente il ricordo della sua esistenza e affermano che i terreni di San Sebastiano si trovavano in quell’area occupata dal campetto e dalle case limitrofe, utilizzata come aia ed orto, sino agli anni ’50 del secolo scorso. Anche i documenti d’archivio sono abbastanza poveri d’informazioni ed il primo riferimento al suo culto, lo ritroviamo in un inventario degli oggetti ed arredi presenti in parrocchia nel 1604, in cui è segnalato un altare molto piccolo dedicato a “Sant Sebastian”. Nel Libro dei Morti dal 1592 al 1765 leggiamo il lascito di Stefano Casu, deceduto il 23 marzo del 1605, con la volontà di elargire, tra le altre donazioni, “dos soldos al altar de S. Sebastia”. Possiamo pensare che, non avendo specificato “a la Iglesia de S. Sebastia”, questa non fosse stata ancora edificata ed il culto si officiasse solo in parrocchia. In questo libro notiamo che erano in tanti a portare il nome di Sebastiano o Sebastiana. Nel registro delle Cause Pie, datato 1761 – 1800, vengono registrate messe cantate in onore di San Sebastian, sino al 1779 e dopo tale data non è menzionato né tra le festività e neppure tra i legati minori. Pochi i documenti che siamo riusciti a trovare, attestanti l’esistenza della chiesa, primo dei quali, una nota delle chiese rurali della Diocesi di Ales del 1763 che traduciamo dallo spagnolo: “A Villanovaforru vi sono due chiese rurali, Santa Marina e San Sebastiano, entrambe senza dote”. Nello stesso periodo, il curato Massidda rispondendo ad un questionario inviato dal vescovo monsignor Pilo, comunicava l’esistenza della chiesa, con la statua del titolare al suo interno; ciò lascia pensare che l’edificio fosse in condizioni accettabili. Avremmo potuto apprendere maggiori notizie da un questionario del 1761, che include un intero capitolo sulle chiese rurali, se la pagina contenente le risposte di Villanovaforru, non fosse stata smarrita. E introvabili sono anche altre risposte, datate 1789; proprio quelle, ci avrebbero permesso di capire se la nostra chiesetta fosse ancora officiata o già in fase di decadenza, perché è da ritenere molto probabile l’ipotesi che sia stata abbandonata già agli inizi dell’Ottocento. In una nota del 21 marzo 1769, risulta nella lista delle chiese sconsacrabili, in quanto evidentemente non si era riusciti ad assicurarle una dote che potesse permetterne le necessarie manutenzioni ed il capitale per lo svolgimento della festa. Non risulta infatti tra le tantissime chiese sconsacrate e fatte demolire qualche anno prima, in seguito agli accordi tra Vaticano e Governo, per porre fine al diritto d’asilo che permetteva ai fuorilegge di rifugiarsi nelle chiese campestri e rimanere impuniti. Purtroppo nemmeno Il Dizionario sui paesi e città della Sardegna, che pubblicò le ricerche di metà Ottocento da parte dello scolopio Vittorio Angius, ci può essere d’aiuto, in quanto l’articolo su Villanovaforru, di fatto non esiste. Un importante indizio ce lo fornisce il Catasto De Candia, che risale al 1840 / 1870 e riporta la pianta di Villanovaforru con la segnalazione della chiesa di Santa Marina e la mancanza di quella di San Sebastiano o del suo eventuale rudere, che se ancora esistente, sarebbe stata da definirsi campestre anche in quel periodo, considerato che le ultime case del paese arrivavano solo qualche metro oltre Via Funtanedda

La festa
Il 20 gennaio, in tanti paesi del circondario, in suo onore si svolgono i falò, con l'intento di simbolizzare l'imminente fine dell'inverno e l'arrivo della primavera che rigenera la natura a propiziare la prosperità dei raccolti. A Villanovaforru l'organizzazione de "su fogadoni", il grande fuoco, è affidata all'Associazione Folkloristica Culturale Su Enau, con l'allestimento della pira da ardere, che viene benedetta dal parroco, prima di essere accesa. La festa si svolge nella serata del sabato vicino al 20 gennaio ed è anche un momento di convivialità gastronomica, con l'offerta di carne arrosto accompagnata da un bicchiere di vino
 
Scheda e foto dal sito visit villanovaforru
 


 

lunedì 3 dicembre 2012

BASSACUTENA: Santa Maria di Monti Latu

 

il sito della chiesa
Non se ne conosce l’esatta intitolazione e secondo la tradizione era dedicata alla Nostra Signora delle Grazie, perché da essa proverrebbe il simulacro tuttora conservato nella chiesa di Santa Maria di Lu Macchjetu, che ne avrebbe mutuato il nome. L’imponente statua marmorea, che ha un’altezza di oltre un metro sarebbe attribuibile alla scuola del Bernini e dunque databile al Seicento, trasferita in periodo imprecisato, nell’attuale luogo di culto presumibilmente in seguito all’abbandono di questo edificio
la statua di Santa Maria
Grazie alla testimonianza del proprietario dello stazzo, il Signor Nicola Ragnedda di anni 79 sappiamo che il tempio, del quale ormai non rimane traccia, era ubicato all’interno della tanca denominata “Conc’Abbalta”, ovvero Roccia Aperta, da un imponente masso granitico che si trova a poche centinaia di metri, un tempo utilizzato come abitazione ed ora sfruttato per la conservazione del foraggio.
 
La chiesa, che aveva una lunghezza di non più di 10 metri, era orientata nell’asse NE – SO ed il suo rudere venne definitivamente smantellato nell’immediato secondo dopoguerra, affinché si potesse accrescere la disponibilità di superficie arativa, ai fini della coltivazione cerealicola, che si protrasse sino agli anni Ottanta. Prima di tale intervento era ben leggibile l’intero perimetro della struttura ed una discreta parte della muratura si trovava ancora in opera, per un’altezza residua di circa 40 /50 cm, composta da cantonetti in granito, reimpiegati per l’edificazione di uno degli edifici rurali presenti nell’azienda
 

la fonte
Ora, ai margini della radura, sotto i macchioni di lentisco, si trovano varie pietre che dovevano comporre l’edificio, alcune delle quali squadrate, oltre a grossi massi lavorati che paiono piattabande e parti di attrezzature da lavoro, forse vasche e torchi. Tutt’intorno è possibile rilevare le fondamenta di alcune strutture circolari, probabilmente pertinenti a capanne, a testimonianza dell’antica frequentazione del sito, facilitata peraltro dalla presenza di una fonte sempre attiva. Non affiorano in superficie resti ceramici o di coppi, generalmente presenti in  contesti simili a questo e certamente una mirata indagine archeologica sarebbe in grado di rilevarne la presenza
 

Purtroppo al momento, neppure la documentazione d’archivio ci aiuta a far luce sulle vicende di questo luogo di culto, che non è riportato né dagli Incierti della Collegiata di Tempio, i cui canonici avevano in carico le celebrazioni delle messe festive nelle chiese rurali di questa zona, né dall’elenco stilato in occasione della visita pastorale di monsignor Cugia Cadello, che ebbe luogo nell’ottobre del 1745. Neppure padre Angius, nomina la chiesa, che certamente alla metà dell’Ottocento dovette essere in stato di degrado avanzato. Non ci è dato sapere se il tempio fosse afferente ad un villaggio medievale, benché sia noto che questa porzione di territorio gallurese, si trovasse a cavallo tra le Curatorie di Montanna e di Taras, alle quali appartennero alcune ville, la cui posizione al momento non è stata identificata. Consultando gli studi del Panedda, riportati nell’opera “Il Giudicato di Gallura”, si potrebbe ipotizzare l’ubicazione in questo luogo dell’insediamento di Guardoco o quello di Cuchur
 


domenica 13 novembre 2011

GIBA: San Giorgio Martire


Il 5 maggio 1066 Torchitorio I giudice del Regno di Karalis dona all’abbazia di Montecassino sei chiese (S. Maria di Flumentepido, S. Marta, S. Maria di Palmas, S. Vincenzo de Taberna, S. Pantaleo de Olivano e S. Giorgio di Tului, tutte site nel Sulcis) con relativi servi e pertinenze affinché i monaci Benedettini impiantassero altrettanti monasteri ed avviassero un programma di miglioramento agrario ed economico, oltre che ovviamente occuparsi della cura spirituale dei vari territori. La chiesa S. Georgii de Tului viene ricordata insieme alle altre cinque nel portale bronzeo dell’abbazia Cassinese. Infatti sono incise su quattro delle sedici targhette di bronzo datate all’epoca dell’abate Oderisio II (1123-1126).  Ritroviamo la chiesa di S. Giorgio in un documento del 1144 ed è probabile che l’intento monastico non andò a buon fine (anche a causa delle contese con i vescovi sulcitani) perché questa pieve, che dovette essere il fulcro religioso del borgo fortificato di Tului, si trova elencata tra i possedimenti che con il “privilegium protectionis” papa Onorio III, confermò nel 1218 alla diocesi sulcitana.
Dall’elenco delle decime che venivano pagate alla Santa Sede, sappiamo che nel 1342 il suo rettore, Bernardo de Puteo, versò 6 lire ed altre 3 lire e 12 soldi, annotate nel registro degli anni 1346/50. Altro documento dello stesso secolo, è il Repartimento del 1365, secondo il quale la villa era tra quelle soggette alla tassazione in favore della Corona aragonese.
Il villaggio di Tului, ha condiviso il destino di numerosissimi centri che in tutta la Sardegna in tempi diversi e per diverse ragioni sono stati abbandonati; risulta disabitato nel 1483, tuttavia alcuni nuclei abitativi vennero ripristinati a partire dal XVIII secolo e restarono in uso ancora fino agli anni Cinquanta del XX secolo. Non si conosce l’esatto periodo di smantellamento della chiesa; numerosi blocchi in trachite ed arenaria della sua struttura furono reimpiegati nella costruzione degli edifici sopracitati ed allo stesso modo non vennero risparmiate le decorazioni scultoree, in parte trafugate, in parte custodite presso il museo di Carbonia; altre poi non meglio identificate e ancora oggi inglobate in altre costruzioni. E’ il caso di una figura che si trova nella chiesa del vicino paese di Masainas intitolata a San Giovanni Battista, la quale risulta essere in stridente contrasto con il resto della muratura nonostante il tentativo dell'intonaco di uniformare il tutto. La figuretta è orrendamente ridipinta il che ne rende difficile la lettura, tuttavia lo stile è perfettamente riconducibile a quello delle altre decorazioni già note, così come è riconducibile anche alle protomi della chiesa di Santa Marta di Villarios, opera di scalpellini locali realizzate secondo un gusto arcaizzante, elementare e al limite del grottesco.
Tra le altre sculture risparmiate dal tempo e dall’azione nefasta dell’uomo si conserva una mensola in trachite caratterizzata anch’essa da una  particolare deformazione ironica e grottesca; ha una testa molto grande su un corpo gracile, stretto dalle braccia sottili con le mani piccole ed esili che accarezzano la barba appuntita. Trova confronti con una protome della chiesa di S. Platano a Villaspeciosa. Tra gli elementi plastici della chiesa di S. Giorgio si annovera anche un frammento di cornice ornato da caulicoli a foglie d’acanto riverse. È questo un tipo di decorazione frequentissima nell’arte pisana e presente in modo particolare nel Duomo di Pisa ma anche in molti edifici sardi in stretto rapporto con essa. Del resto il motivo a caulicoli e foglie d’acanto è presente anche nei capitelli del portale principale della chiesa di S. Giusta ad Oristano, dovuta a maestranze pisane.
Tra le sculture trafugate poco tempo dopo il rinvenimento figura una lastra arrotondata sulla sommità, nella quale è rappresentata una scena di caccia o di combattimento di un uomo con un leone. La figura dell’uomo è ripresa in maniera piuttosto approssimativa con il corpo che sembra galleggiare nell’aria quasi senza peso e che impugna una sorta di zagaglia. Il leone invece risulta scolpito con una certa abilità.

Altra chiesa pertinente a Tului dovette essere quella votata a San Pietro, eretta nei pressi di una villa di età romana (località indicata ancora oggi S. Pietro), e poi ricostruita nel 1932 secondo un gusto alquanto discutibile, all’estremità Nord dell’abitato odierno. Oggi questa pieve risulta abbandonata e in rovina, così come l’annesso cimitero.
Oggi di Tului (compreso nel territorio comunale della vicina Tratalias) non restano che isolati ruderi sepolti dalla vegetazione e non vi è purtroppo traccia né della chiesa dedicata a S. Giorgio né del castello, entrambi ricordati nelle fonti. La costruzione della vicinissima  diga di Monte Pranu negli anni Cinquanta del XX secolo ha determinato anche la sommersione di parte delle costruzioni del villaggio. Una accurata indagine archeologica potrebbe aiutare a fare chiarezza non solo sulle proporzioni dell’edificio di culto ma anche dell’intero abitato e del castello.
Da Tului ha avuto origine l’attuale paese di Giba situato un chilometro più a Sud. Il sito di Tului indicato in alcune carte come Tulni risulta infatti a pochi km dal paese e nelle vicinanze della diga di Monte Pranu.
A cura di Claudio Portas, laureando in Storia dell’Arte

Progetto: chiesecampestri.it



sabato 24 settembre 2011

GHILARZA: Santa Maria Maddalena



Sa Maddalena era sita poco fuori dalla parte occidentale dell’abitato di Ghilarza, nel declivio che determina la vallata di Chenale, che si sviluppa tra lo sperone roccioso più ad ovest, ospitante la chiesa della Madonna del Carmelo (nota più comunemente come “su Prammu”) e la parte terminale dell’abitato ad est, dove si estende il grande piazzale della chiesa romanica di San Palmerio e della Torre Aragonese.
Scarsissime le notizie riguardanti questo edificio dedicato alla Maddalena; Soltanto il Licheri, nel suo volume riguardante Ghilarza, stampato nel 1900, riporta che si trattava di una proprietà di un privato, il quale l’acquistò dal Demanio. Lo stesso autore riferisce che le sue prime attestazioni risalgono al 1757, allorquando Monsignor Del Carretto, costatandone le condizioni rovinose, chiese al Procuratore Parrocchiale di provvedere a dei restauri e migliorie. Passata all’inizio del 1800 sotto il Patronato degli Artigiani (i quali riconoscevano nella Santa la propria patrona), non effettuati i restauri che vennero richiesti anche dal Monsignor Bua, nel 1836 venne chiusa al culto e divenne un ossario. Vendute le tegole del tetto nell’anno successivo, il Licheri ricorda l’edificio come”uno stanzone zeppo di bianche ossa”. Nella memoria locale molti anziani ricordano ancora la località ed il posto preciso (che dovrebbe corrispondere all’incirca alle due linee parallele tracciate). In situ si distinguevano, fino ad una sessantina di anni fa, prima dell’azione di pulizia a scopo agricolo, frammenti di tegole e pietre verosimilmente appartenenti all’edificio

A cura di Claudio Licheri, archeologo

Progetto: chiesecampestri.it

mercoledì 13 luglio 2011

SASSARI: Sant'Elia Profeta






Era nota come Sant'Elia al Monte in quanto si trovava alla falda del così detto 'Monte Rosello', ossia l'altura digradante verso maestrale su cui oggi sorgono alcuni quartieri residenziali della Sassari moderna. Uniche notizie sulla chiesa prese dal Sassari di Enrico Costa (vol. II, pp. 1197-98): è ricordata come chiesa "extra muros" della città, posta a una certa distanza, nell'atto del 31 agosto 1571 con cui l'Arcivescovo Martino Martinez Villa "unisce" i frutti delle rendite derivanti da pertinenze e terre di 46 chiese campestri alla Chiesa Cattedrale Turritana; Sant'Elia è poi menzionata nelle Congregazioni Capitolari avvenute tra il 1597 e il 1617, ma non è riportato dal Costa quante volte e in quali anni. Il piccolo tempio fu poi citato dal poemetto "Verdadera relatiòn delle cose meravigliose che avvennero nella città di Sassari nel 1648" del Padre cappuccino Antonio Sortes (poemetto di 208 stanze, stampato nel 1649). Nel poema, dedicato al Crocifisso miracoloso della chiesa parrocchiale sassarese di Sant'Apollinare, Sortes scrive nella stanza 63, dell'edificio che è indicato come "povero", a dimostrare la semplicità e l'essenzialità che la chiesa dedicata al santo profeta doveva presentare al fedele; ecco il testo:
 
Secretos anduvieron hasta el monte
Do San elias tiene el pobre Templo,
Y con sus disciplinas à Aqueronte
Dieron mucha afliciòn (como contemplo),
Y si bien obscuro el orizonte
Porque la gente de esto tome ejemplo,
Mandan los Cielos luego à publicarlo,
Porque venga la gente a imitarlo.
 
Trovo poi menzione della chiesa, come ancora esistente, nel Cessato Catasto Agricolo del 1876, al Mappale 3269 Frazione I² : "Chiesa di Sant'Elia", con accesso dalla "Strada per Sorso", confinante con gli eredi "Mela di Sant'Elia" (map. 3267) e le Monache Cappuccine (map. 3268), corrispondente nella mappa stilata nel 1864. La mappa dimostra come il piccolo tempio sorgesse nell'area oggi prossima alla Via Pirandello, lato destro percorrendola in direzione Sorso. Nell'area oggi non si distingue alcuna vestigia della chiesa: propendo, confrontando la vecchia mappa ottocentesca con l'attuale situazione, che l'edificio fosse collocato nel campo tra la rotatoria posta all'innesto con la Strada Provinciale 60 "Buddi Buddi" e la prima curva a tornante  (discesa verso la valle di Logulentu) della Strada Statale 200 Sorso e Sennori
 
A cura di Alessandro Ponzeletti, specializzato in Studi Sardi in Indirizzo artistico-archeologico 
 
Progetto: chiesecampestri.it